Il fotografo valtellinese ci parla dell’evoluzione delle sue fotografie. Da semplici appunti visivi ad immagini cariche di concetto.
Valtellinese di nascita, Simone Ronzio cresce con la passione per l’arte e per la fotografia. I suoi studi lo portano altrove, per la precisione nella città di Sondrio, dove apre uno studio di comunicazione visiva e grafica. Nel corso degli anni la sua attenzione si sposta sempre più verso una fotografia concettuale, che cerca di epurarsi dalle “volgarità” delle immagini alla quali siamo quotidianamente esposti. Nel corso di questa breve chiacchierata Simone ci racconta proprio di questo cambiamento e ci mostra alcuni scatti più recenti.
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Ciao Simone, puoi raccontarci qualcosa di te?
Ciao Barbara, sono nato nell’aprile 1980 a Tirano, in Valtellina, incastrato tra due lunghe catene montuose Alpine, dove tutt’ora mi ritrovo. Il mio percorso formativo è stato variegato e multidisciplinare, infatti mi sono diplomato a Bergamo in chimica e successivamente mi sono laureato in Scienze Politiche a Milano. La passione per i viaggi e l’arte mi ha portato a vivere in Spagna e in Polonia; durante una breve permanenza a Genova sono entrato in contatto con alcune gallerie dove ho esposto alcune opere pittoriche. Rientrato in provincia di Sondrio ho pensato di unire queste anime scientifico-umanistiche-artistiche per dedicarmi al lavoro di comunicazione. Molto studio autodidatta, un corso di web-design e un lungo stage presso un’agenzia. Ormai sono 6 anni che lavoro nel mio studio con un collega e amico.
Quando ti sei avvicinato per la prima volta alla fotografia?
Mi sono interessato fin da piccolo, la fotografia è stata il mio primo linguaggio. Ricordo con piacere il giorno in cui mio padre mi regalò una reflex Zenith, con le istruzioni in russo.
Che tipo di attrezzatura utilizzi di solito?
Lavori a pellicola o in digitale?
In questi ultimi anni in digitale, purtroppo non è facile nella zona in cui vivo trovare laboratori di sviluppo e stampa di qualità, ma forse la verità è che ormai sono abituato ad una certa economia e velocità esecutiva. Anche se ogni volta che vedo una foto scattata con una 6×6 ci ripenso.
C’è qualche fotografo al quale ti ispiri?
Se dovessi tracciare dei confini dentro i quali si muove la mia “visione” fotografica, vorrei collocarmi idealmente tra la poetica di Luigi Ghirri e la concettualità di Andreas Gursky.
Mi raccontavi che il tuo percorso da fotografo è cambiato molto negli anni e che il tuoi ultimi lavori cercano di ritrovare una “visione pura” della fotografia, in che senso?
Forse non tanto nella fotografia quanto dell’immagine. Il mio lavoro di designer mi espone costantemente al mondo pubblicitario, il quale ha un linguaggio molto ammiccante, provocante, esuberante. Con la fotografia attualmente provo a ripulire questo filtro per cercare nella semplicità dei miei soggetti qualcosa al di là della percezione, c’è qualcosa magico e invisibile che mi attrae. Il mio modo di scattare è cambiato negli anni, prima le mie immagini si interessavano di tutto; erano degli appunti visivi che raccoglievo viaggiando. Oggi le mie scelte sono più concettuali.
__Questa ricerca della purezza fotografica trova applicazione anche nella post-produzione delle immagini?
Sì, naturalmente, anche se la mia post-produzione si limita alla gestionecromatica, non mi spingo oltre. Non esiste una fotografia pura è sempre frutto di un processo, basta cambiare l’ottica e l’immagine si trasforma.
Come ritroviamo questa visione negli tuoi lavori
“Be in a place” e “Heimat”?
Ho cercato in entrambi i lavori di essere mimetico, di non interferire troppo con i soggetti. In “Be in a place” l’imperativo era esistere, essere presente nello spazio e guardare verso la camera in maniera impassibile. In “Heimat” credo sia stata la scelta del luogo, la fisicità delle montagne, degli animali, i ritmi scanditi, i silenzi, i rumori. Credo sia stato quella la purezza, ero solo ad immortalarla.
__Mi piace pensare, guardando alcuni tuoi progetti, che non ci sia una differenza tra una fotografia fatta ad un animale impagliato, installato in un museo all’interno di un ambiente ricostruito
e il ritratto di una persona fotografata nell’ambiente nella quale lavora o vive. Anche le piante e la natura sembrano delle ambientazioni catalogate proprio come i diorama.
Che ne pensi? Che direzione sta prendendo il tuo lavoro?
Ti ritrovi con questo concetto della catalogazione?
Più che ad un lavoro di catalogazione mi interessa giocare sulla dualità fiction-reale cercando di capire cosa stabilisce la veridicità di un immagine. I diorami mi affascinano perché riescono – ricostruendo una scena nella sua immobilità – ad eludere il concetto di tempo, creando una sorta di “fotografia tridimensionale” della realtà. Il lavoro di catalogazione è efficace nel momento in cui un percorso di ricerca e sintesi restituisce un risultato essenziale ed oggettivo dell’argomento di indagine; da questo punto di vista potrei pensare che la mia fotografia sta cercando di “catalogare” la realtà.
Che tipo di lavoro hai voluto affrontare invece col tuo progetto più recente “Hic et Nunc”?
In “Hic et Nunc” ho cercato di esasperare il mio aspetto concettuale del fotografare, sono andato oltre la fisicità dello scatto fotografico. L’immagine visibile sul mio sito è presa da una webcam posizionata su un ponte. Non esiste fisicamente il momento dello scatto e non esiste il fotografo, il mio sito web è una specie di prolunga del mirino della macchina fotografica, è l’utente che vede e scatta metaforicamente la sua foto.
Hai qualche progetto nuovo in cantiere?
Ultimamente sto pensando molto al significato aletorio del concetto
di “ordine”.
Un sogno nel cassetto.
Una mostra fotografica di stampe di grande formato in uno spazio bianco, neutro, puro.
(Intervista a cura di Barbara Chloe Asnaghi per la rivista Pizzadigitale / 17.03.2014)